“Quando nascerà questo bambino?”, diceva mia madre in preda all’agonia. In sala travaglio, Lois Pearl, mia madre, aveva fatto gli esercizi di respirazione e aveva cominciato a spingere, spingere... ma non succedeva niente. Nossignore. Nessuna dilatazione. Solo dolore e ancora dolore, mentre la dottoressa tornava a controllarla tra un parto e l’altro. Cercò di non gridare; era determinata a non dare spettacolo. Dopo tutto, si trattava di un ospedale. C’erano persone malate e prive di qualunque forma di salute e benessere.
Eppure, quando la dottoressa tornò nuovamente, mia madre la guardò e, con gli occhi pieni di lacrime, domandò: “Finirà mai tutto ciò?”
Preoccupata, la dottoressa mise una mano sull’addome di mia madre per vedere se io avessi “mollato” abbastanza per poter esser tirato fuori. L’espressione del suo volto dimostrò che non era convinta. Ma considerato il dolore lancinante di mia madre, si voltò verso l’infermiera e con riluttanza disse: “Portatela dentro!” Fu messa su un lettino e trasportata in sala parto. Mentre il medico continuava a premere sul suo addome, mia madre notò che la stanza si era riempita delle urla di una persona. Dio mio, pensò mia madre, questa donna si sta coprendo di ridicolo! Si rese poi conto che, a parte il personale, lei era l’unica persona in quella stanza; ciò significava che le urla erano le sue. Stava dando spettacolo. Tutto ciò la infastidì molto.
La dottoressa la guardò in modo rassicurante e le fece assumere un po’ di etere. Fu come mettere un cerotto su un arto ferito.
Mia madre riusciva a malapena a sentire la voce sopra il rombo dei motori, degli enormi motori, come quelli di una fabbrica, non certo di un ospedale a cui le persone si rivolgono per ritrovare la salute perduta. Quel suono, accompagnato da un prurito, aveva cominciato a formarsi attorno alle piante dei piedi. Cominciò poi a salire lungo il corpo come se i motori si stessero muovendo in alto ed il rumore diventasse sempre più intenso, eliminando completamente le sensazioni di una parte del corpo prima di spostarsi a quella successiva. Le rimaneva solo un senso di stordimento, a cui il suo desiderio di benessere voleva porre fine al più presto.
Mia madre sapeva che si sarebbe ricordata quel dolore per tutta la vita. La sua ostetrica pensava che le donne dovessero vivere appieno “la totale esperienza” del parto. In due parole, niente antidolorifici. Neanche durante il parto, eccezione fatta per le poche boccate di etere quando le contrazioni raggiungevano il picco doloroso.
“Quando finirà?”
“La stiamo perdendo...”
Sopra il suono dei motori, il dolore del travaglio persisteva.
Stranamente, nessuno dei medici o degli infermieri appariva distratto. C’era quest’enorme rumore e nessuno nella sala parto sembrava sentirlo. Mia madre si chiedeva: “Come può essere?”
I motori quindi e lo stordimento conseguente, avrebbero dovuto essere un sollievo. Ma quando i motori raggiunsero l’altezza della vita, mia madre fu colpita da ciò che sapeva sarebbe successo quando fossero arrivati al cuore.
La stiamo perdendo...
No! Fu invasa da un senso di resistenza. Dolore o non dolore, non voleva morire: immaginava le persone che amava distrutte dal dolore. Ma per quanto lottasse, i motori non invertivano la direzione. Procedevano in alto, stordendola sempre di più, annullando la sua esistenza. Non riusciva a fermarli. Quando capì, successe qualcosa di strano. Nonostante non volesse morire, improvvisamente piombò su di lei un senso di pace, come se improvvisamente avesse recuperato il benessere e la totale guarigione da tutti i mali.
I motori raggiunsero lo sterno. Il loro rombo riempì la sua testa. Poi cominciò ad ascendere...
La stiamo perdendo...
Tratto dal libro “The Reconnection” di Eric Pearl. Per ulteriori informazioni clicca qui